I vulcanelli di fango

I vulcanelli di fango: Nel territorio di San Paolo ve ne sono due: uno in contrada Bagno o Bagni, attualmente contrada Fonte, l’altro in contrada Battinebbia. Sono chiamati “bagni”, “salse” o bollitori; la denominazione di “vulcanello” è stata preferita in quanto le materie fangose, uscenti dal suolo miste ad acqua sospinte dai gas, si dispongono in modo tale da riprodurre, in scala ridotta, un apparato vulcanico, con la tipica forma conica col relativo cratere.

Il vulcanello di contrada Bagno si presenta in un tratto di terreno pianeggiante come vasta area fangosa, circolare, con diametro di circa 20 metri. In essa qua e là qualche spiraglio lutivomo: tre piccoli conetti, con fango spesso ribollente. Il luogo incolto è circondato all’intorno da salici, interamente ricoperto di piante palustri.

Il vulcanello di Battinebbia, sulla destra del fosso detto Valle delle Lame, si presentava nel 1951, rialzato sul fossato e con un conetto di emissione fangosa (alto 45 cm, diametro di base 60 cm). Immediatamente all’intorno manca la vegetazione e ci sono pozze fangose.

Questi fenomeni non sono unici nelle Marche: altri ne troviamo in provincia di Ascoli, mentre non sono presenti nell’area settentrionale della nostra regione. Nel bacino del fiume Esino, oltre a quelli di San Paolo, ve ne erano nella valle del Fossato di San Giovanni, affluente dell’Esino, in contrada Calapina nel comune di Monte Roberto. Purtroppo l’abbandono dei campi, lo spianamento dei terreni con mezzi meccanici e la mancanza di leggi nazionali o regionali che permettano la protezione dei siti come “genotipi”, hanno in parte distrutto o reso irraggiungibili fenomeni interessanti dal punto di vista della geografia fisica, come questi dei vulcanelli.

 

Acquasalata: Il torrente Cesola (nome che trae origine dai passati disboscamenti) è un corso d’acqua che versa le sue acque nel fiume Esino e che raccoglie quelle di tutto il bacino dell’intera Valle del Massaccio (Cupramontana, San Paolo, Staffolo).

Lungo il torrente una sorgente ricca di sali minerali è all’origine del toponimo Acquasalata usato sia nella zona del comune di San Paolo che in quella di Cupramontana.

La sorgente con le sue acque salse è probabilmente da mettersi in relazione con la presenza del vulcanello di fango in contrada Battinebbia, situato a poche centinaia di metri.

Nei secoli passati la sorgente fu apprezzata per le sue prerogative terapeutiche, tanto da essere chiamata acqua santa. Virtù terapeutiche per animali e persone, le acque comunque erano usate allora, come di recente per ricavare il sale. Durante l’ultimo conflitto mondiale infatti molti, per carenza di sale, vi si recavano prelevando acqua che aggiungevano ad altra per cuocere vivande o facendola bollire ne ricavavano direttamente il sale.

Non lontano, nelle vicinanze della sorgente, si ricorda ancora da qualche anziano, un vasaio, che per qualche tempo si dedicò alla realizzazione di brocche, destinate prima di tutto a chi, andando ad attingere acqua, potevano ritrovarsi con le brocche rotte.

Il Monachesimo nelle Marche

Il monachesimo fu in origine un movimento laicale animato dal desiderio di perfezione spirituale e di imitazione della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme.

Il monachesimo trova espressione in due modelli di vita: l’eremitismo e il cenobitismo.

In una società in fase di disgregazione, resa ancora più drammatica dall’immissione di popolazioni barbariche in fase di migrazione verso i territori dell’Impero, il monastero divenne centro di aggregazione, di rifugio e di spiritualità, ma soprattutto luogo di propulsione della società medievale che si andava con difficoltà formandosi.

Il primo a formulare ed attuare un modello efficace di monachesimo per l’Occidente fu Benedetto da Norcia, che nella sua regola pose come cardine della vita collettiva la figura dell’abate, plasmando per la prima volta il concetto di comunità sull’idea di famiglia..

Le Marche furono una delle prime regioni d’Italia a recepire il fenomeno del monachesimo. I primi indizi della presenza di monaci e monasteri nel Piceno risalgono infatti al V secolo. A partire dalla seconda metà del secolo VII le fondazioni benedettine ricevettero notevole impulso economico e religioso dai re e duchi longobardi. Di particolare rilevanza per la storia del monachesimo nelle Marche fu la fondazione dell’Abbazia di Farfa nella Sabina verso il 680.

I monaci, nel loro primo insediarsi nel territorio marchigiano, costituitosi attraverso l’unione delle antiche province romane del Picenum a sud e della Flaminia a nord, seguirono direttrici suggerite dalle antiche vie consolari romane. A ciò si aggiunga l’avvio della pratica devozionale del pellegrinaggio.

Molto stretto il rapporto dei monasteri marchigiani con le vallate fluviali, lungo le quali erano disseminate in posizione strategica le abbazie, in particolare quelle percorse dalla Flaminia e dai suoi diverticoli.

Nel corso dei secoli X e XI le Marche diventano terra di elezione della riforma monastica, soprattutto grazie all’azione dei due grandi santi riformatori ravennati, S. Romualdo (952 ca. – 1027) e S. Pier Damiano (1007 – 1072) i quali scelsero la nostra regione per dar vita ad una nuova forma di spiritualità e di ascesi. Essi lasciarono una traccia profonda ed, in parte, ancora visibile.

Monaci cistercensi si insediarono nel 1142 a S. Maria di Chiaravalle e pochi anni dopo a S. Maria di Castagnola (ribattezzata anch’essa Chiaravalle), nella bassa Vallesina.

Infine un ordine monastico tutto marchigiano è quello fondato dall’osimano Silvestro Guzzolini, già canonico della cattedrale della sua città, il quale nel 1227 si ritirò in una grotta presso Frasassi, fondando poi nel 1231 il monastero di Montefano presso Fabriano. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1267, il movimento che da lui aveva preso origine si denominò Ordine di S. Benedetto di Montefano, oggi Congregazione Silvestrina.

Nella realtà europea del Medioevo una parte non secondaria, a livello di organizzazione economico – sociale e a livello di unificazione culturale, viene svolta dai centri monastici. Essi hanno caratterizzato per secoli il volto dell’ambiente in cui si trovavano, al quale si rapportavano con mille legami e verso il quale esercitavano una influenza modificatrice.

La lettura geo - morfologica della regione contribuisce a chiarire la logica dell’insediamento abbaziale, articolato in tre sotto – sistemi: la fascia pre – appenninica, le valli solcate dai fiumi e la costa.

Le dinamiche territoriali d’insediamento delle abbazie nella realtà fisica del territorio marchigiano prendono avvio quando si attua la metamorfosi della civiltà urbana in civiltà rurale, nel tardo Impero.

Il ritorno alla civiltà rurale porta ad una economia agricola, ad una decadenza di importanza e di attrazione delle città. Inizia così l’affermazione di un insediamento di altura, fortificato ed accentrato; l’unità sociale ed economica in cui tutto si inquadra è la corte feudale.

L’unico a sopravalicare questo sistema chiuso, fu quello monastico. Il fenomeno del monachesimo nelle Marche ha operato una sorta di rivoluzione nell’habitat rurale ereditato, grazie all’azione dei monaci.

Il bosco è un elemento di primaria importanza nel corso del medioevo. Esso costituisce un elemento capitale dell’ambiente materiale e mentale della società rurale del territorio. Le foreste rappresentano un elemento fondamentale dell’economia: forniscono il combustibile per il riscaldamento come per l’industria artigianale; procurano i materiali principali della costruzione, dell’artigianato, dell’utensileria, degli steccati; la cenere serve a concimare il suolo coltivabile; le scorze servono nella conceria e sono utilizzate insieme alle radici, alle foglie, ai fiori. Gli uomini e gli animali trovano nelle foreste le risorse alimentari.

I monaci si sforzano di economizzare sulla manodopera di difficile reperimento e ricorrono alle sorgenti di energia disponibili, essenzialmente l’energia idraulica. Essi contribuiscono in tal modo al progresso della tecnica.

Il convento cerca così di sviluppare, per quanto possibile, un’economia autarchica, producendo tutto il necessario.

E’ nei conventi che il lavoro acquista un carattere legato a finalità razionali: qui si apprende a far economia di tempo, a dividere ed a utilizzare razionalmente la giornata, a misurare lo scorrere delle ore. La divisione del lavoro diventa il principio fondamentale della produzione.

Alcuni monasteri assunsero le caratteristiche di veri e propri centri industriali con sezioni intere riservate alle officine degli armaioli, altre ai sellai, ai rilegatori, ai calzolai, etc.

L’abbazia è anche un complesso organismo funzionale: il suo spazio non è più spazio della contemplazione, ma della vita.

L’articolazione spaziale tipo di un’abbazia prevedeva un grande cortile il cui perimetro era segnato, su un lato, dai fabbricati destinati alle abitazioni e dall’altro da quelli destinati alle stalle, magazzini ed officine. La sostanziale poca distanza dal fiume, consentiva di poter contare su alcuni mulini e altre strutture idrauliche.

I monaci dimostrano di possedere un concetto di spazio quale nessuno prima di loro aveva dimostrato possedere. E’ una nuova impostazione del rapporto stesso tra uomo e natura.

L’architettura monastica si configura come aggregazione di strutture funzionali in base alle diverse necessità della vita monastica, da quelle legate alla preghiera a quelle di carattere produttivo, ed organizzate secondo modalità costruttive omogenee, dettate o direttamente influenzate dagli ordini religiosi.

Le architetture monastiche ripetono nelle linee quelle dei più antichi edifici romani della domus e della basilica, ma acquistano una valenza diversa, determinata dal rapporto tra le forme dell’edificio e la particolare metafisica che presiede alla vita del singolo ordine monastico.

Il monastero diventa una sorta di modello di città umana, ordinata secondo ratio e figura, dove la funzione sociale e la dimensione comunitaria determinano, accanto alle celle dei monaci, la costruzione attorno al chiostro di ambienti con diverse destinazioni, come il refettorio, la sala capitolare o lo scriptorium.

Ben poco si sa, vista l’esiguità di testimonianze esistenti, delle prime espressioni architettoniche.

Le forme dell’architettura monastica non hanno caratteristiche omogenee nell’intero territorio, ma si modulano sulla base di condizioni climatiche, ambientali e della natura del terreno.

 

MONACHESIMO FEMMINILE

Sembra che le più antiche forme di ascetismo femminile si svolgessero all’interno delle case o dei locali adiacenti ai luoghi di culto: le prime comunità derivano dall’unione quasi spontanea di pie donne che aspiravano ad una vita di perfezione.

Alla fine del VI secolo compaiono le prime Regole destinate ai monaci, che ben presto sarebbero state osservate dalle monache. Si sviluppano anche dei veri e propri monasteri doppi, in cui le due comunità vivono in strutture adiacenti.

Le comunità femminili si ponevano sotto il diretto controllo dei monasteri maschili per sottrarsi al sospetto di eresia. Ma nel monachesimo delle origini la superiora, denominata abattissa ha poteri piuttosto ampi e amministra anche il sacramento della penitenza. Tale prassi verrà meno col tempo.

Il monachesimo femminile mantiene tuttavia una forte caratterizzazione nel manifestarsi come realtà vissuta dei fondamenti della vita monastica: si sceglie una vita in comune nel celibato per seguire l’insegnamento di Cristo in quella determinata forma vitae, in assenza di qualsiasi prospettiva clericale o di sbocchi pastorali esterni al monastero: è il primato dell’amore di Cristo che viene perseguito dalle comunità monastiche femminili come fine principale ed ultimo del loro essere comunità.

Le attività: la monaca benedettina si considera una donna in continua preghiera, la sua giornata era infatti scandita da una lunga serie di pratiche di pietà. Tuttavia alla quotidianità della preghiera e alle attività tipiche dell’ordine benedettino, quali l’accoglienza, la formazione scolastica primaria, le pratiche di tessitura e la produzione delle ostie per i sacramenti, una tradizione culinaria notevole, si alternavano pratiche virtuose come la pittura, la lettura, la recitazione, il canto e la composizione musicale.

L’estasi mistica si configurava come un mezzo con cui le donne reclamavano il potere clericale per se stesse: in effetti le monache erano tenute in un regime di povertà e di dipendenza dovuta al fatto che i riti principali dell’eucarestia e della confessione dovessero essere amministrati esclusivamente da uomini e spesso anche previo compenso.

Dalla nascita del monachesimo femminile la musica si è configurata come un elemento portante della vita claustrale. L’ordine di S. Benedetto detiene il primato per il più alto numero di suore compositrici.

Il fenomeno nelle Marche: nelle Marche il monachesimo femminile è presente in modo significativo. La presenza continuativa di una comunità femminile è riconducibile a quella di S. Maria di Valdisasso, abbandonato in epoca assai precoce forse per l’estrema asprezza del luogo. Nei secoli successivi si ha una crescita costante delle comunità monastiche che si fa rilevante nel XII secolo con la fondazione di molti monasteri. Nei secoli XIII e XIV si affermarono anche forme di vita eremitica con il diffondersi del fenomeno dei carcerati e delle carcerate per Cristo, penitenti che sceglievano la reclusione volontaria in celle o carceri, perseguendo la mortificazione del corpo per l’elevazione spirituale. Nello stesso periodo anche il monachesimo di vecchia tradizione risulta florido.

Nel Basso Medioevo lo spopolamento di numerosi monasteri conferma anche nelle Marche la generale decadenza della vita monastica.

La situazione riacquista nuovo impulso dopo le disposizioni del Concilio di Trento (dicembre 1563) che sancisce il rinnovo della celebre costituzione di Bonifacio VIII Periculoso sulla clausura e lo spostamento immediato degli ultimi monasteri in città. Nella spiritualità post – tridentina si diffonde e si accentua la clausura e si sviluppano maggiormente le pratiche di pietà.

Nel ‘600 si sviluppa anche una nuova attività, che avrà seguito fino ai giorni nostri, l’educandato, destinato alla formazione delle giovani avviate alla vita matrimoniale.

La seconda metà del XVIII secolo fu caratterizzata dalla crisi delle vocazioni che condusse anche alla soppressione di alcuni monasteri. A tale situazione si aggiungono le massicce soppressioni napoleoniche dell’inizio dell’800.

LA STORIA DELL’OLIO E DEGLI OLIVETI IN VALLESINA

La setta dei fraticelli a Maiolati

Nel secolo XIV – XV il castello di Maiolati fu tormentato dalla presenza dei Fraticelli: laici e frati insediatesi nella Marca di Ancona che, per motivi teologici e disciplinari, si sono staccati dall’Ordine dei Frati Minori e, successivamente, dalla Chiesa Romana, per lo meno in apparenza, in seguito alle disposizioni canoniche emanate dal Papa Giovanni XXII (1316 – 1334) nei confronti di questi seguaci rigoristi della regola di San Francesco di Assisi, sulla base di una interpretazione assolutista della povertà di Cristo e degli Apostoli.

I Frati avevano costituito una famiglia religiosa autonoma. I Fraticelli sono diventati una setta eretica e scismatica, nata nel secolo XIII ed estinta nella seconda metà del secolo XV, col rifiuto della definizione canonica della povertà di Cristo (1323).

Le intenzioni di tutti i fraticelli erano valide e motivate. Appesantito da malintesi e da pregiudizi affrettati, il conflitto con la Chiesa istituzionale è stato spesso violento, a livello di una letteratura polemica, sanzionato da documenti giuridici e da comportamenti inquisitoriali feroci. Gli episodi repressivi si sono verificati anche a Maiolati.

Giovanni XXII emanò alcune Bolle nei confronti dei Fraticelli. Il conflitto teologico durò a lungo e si accentuò con la condanna, per motivo di eresia, di sostenitori della tesi relativa alla povertà assoluta di Cristo.

Sostenuti da vescovi francescani alcuni gruppi di fraticelli rimasero attivi in Umbria, in Sicilia, in Calabria, nel regno di Napoli, in Toscana, ma anche in Armenia e in Spagna. Furono severamente repressi da Inquisitori che, talvolta, appartenevano all’Ordine dei Frati Minori. Ma l’adozione di abiti civili e la protezione popolare consentirono ad alcuni di fuggire alla persecuzione. I principali Inquisitori furono S. Bernardino da Siena, S. Giacomo della Marca e S. Giovanni da Capestrano. A Roma fu celebrato un duro processo nel 1466 – 1467 contro i “ribelli” di Poli (Lazio) e di Maiolati, catturati mentre si recavano in pellegrinaggio alla Porziuncola di Assisi. Dopo questi tristi eventi il movimento sparì e fu assorbito dai francescani Osservanti.

L’azione repressiva contro i Fraticelli asserragliati nei quattro castelli di: Maiolati, Massaccio (Cupramontana), Poggio e Merulo (Mergo), veri e propri centri della dissidenza spirituale e fraticellesca sin dagli esordi del movimento, benché assai determinata ed a tratti spietata, non fu assolutamente agevole, a testimonianza del radicamento della propaganda fraticellesca. Particolare impegno fu applicato nell’azione repressiva nei confronti di Maiolati, ritenuto come il centro principale dell’eresia.

Tra le accuse del processo romano del 1466 c’è la pratica scabrosa del “barilotto” (che consiste nel ridurre in polvere il corpo del bambino, nato dai riti orgiastici, passandoselo di mano in mano, sopra il fuoco acceso, dai vari partecipanti al rito. Le polveri venivano versate in un fiascone di vino e poi bevuto dai partecipanti.

Abbiamo detto che Maiolati è stato nel ‘400 il centro dove maggiormente si sono svolte le vicende dei Fraticelli, tanto che questi eventi hanno inciso talmente tanto sul tessuto sociale ed ecclesiale al punto da provocarne la distruzione del castello (1428) e anche dare motivo a divisioni e contrasti all’interno della società di Maiolati e dei castelli vicini.

Maggiore inquisitore in questa zona dei Fraticelli è Giacomo della Marca che nel suo Dialugus delinea in modo negativo la fisionomia morale dei Fraticelli, sottolineando la rozzezza, l’ignoranza della Sacra Scrittura, l’incapacità di aprirsi alla verità, la pretesa di erigersi a maestri, l’ostinazione nell’errore, la povertà intellettuale, l’incoerenza e l’ipocrisia.

Sul piano morale rileva le loro nefandezze sessuali, respinge la loro pretesa di voler vivere senza alcuna legge. Sottolinea anche l’ambiguo comportamento nei riguardi della povertà, rivendicata come base irrinunciabile della sequela di Cristo, ma contraddetta nella pratica della vita. Le informazioni sulle posizioni dottrinali della setta provengono a Giacomo da una sua diretta ed approfondita conoscenza dei gruppi ereticali della Marca di Ancona, dove opera prima come predicatore e poi come inquisitore. In questa veste non cessa di rimproverare ai Fraticellila pervicacia nel sostenere l’errore, la volontà di ingannare i semplici, la temeraria e cieca lotta contro la fede.

Gli aspetti salienti del credo e della pratiche dei Fraticelli si possono così riassumere:

- il Papa Giovanni XXII (1334) è simoniaco ed eretico, pertanto con lui anche tutti i suoi successori hanno perso il potere di giurisdizione;

- non si deve alcuna obbedienza al Papa, ai Vescovi, ai sacerdoti;

- non è lecito confessarsi dai sacerdoti poiché, avendo perduto il potere di giurisdizione, non possono assolvere;

- solo coloro che seguono la povertà di Cristo come i fraticelli sono suoi veri discepoli;

- tutti quelli che non concordano con i Fraticelli “de opinione” sono eretici;

- tutte le pratiche dei fraticelli sono lecite e accette a Dio.

Leggenda Monte Murano

Il diavolo battuto da San Floriano

Nella tradizione popolare della Vallesina, la formazione della Gola della Rossa viene spiegata in termini piuttosto differenti da quanto ci suggerirebbero le conoscenze geologiche, attribuendone la responsabilità a Floriano, pastorello di Cingoli secondo alcuni racconti, soldato romano secondo altri.

Furbo e devoto, il futuro Santo sfidò nella corsa il diavolo sulla distanza da Fabriano a Jesi. Subito in testa, Floriano costellava il percorso di segni della croce, che il suo avversario - ovviamente - era costretto ad aggirare. Ma il prodigio lo compì allorché, ormai al cospetto dell'alto Monte Murano, con un ultimo segno di croce lo divise dal Rovellone, formando la Gola. Via di corsa, prestando attenzione alle acque, curiose, che già si insinuavano al fondo.

E il diavolo ad ansimare su per il monte...

L'arrivo a Jesi non poteva che essere una festa, annunciata dallo spontaneo scampanare di tutte le chiese. E a Jesi ancora suonano campanelle di coccio, il 4 di maggio, festa del Santo e Patrono. Ma chissà oggi come sarebbe andata a finire, che per il Monte si va in galleria...

Olio Vasellina

La storia dell'olio e degli oliveti in Vasellina

Nei castelli della media valle dell’Esino: Castelbellino, Monte Roberto, Maiolati Spontini, Cupramontana, San Paolo di Jesi, Staffolo, la produzione di olio di oliva non è la più importante per quantità, ma per qualità. In questi luoghi la coltivazione dell’olio è millenaria, tracce di antichi molini sono ancora visibili. Alcuni antichi frantoi erano ubicati presso i torrenti ed erano mossi con l’energia ricavata dall’acqua, gli altri invece lavoravano con le forze di uomini ed animali ed utilizzando tecniche millenarie.

Ci sono i frantoi ancora in attività che continuano la secolare tradizione dei “molini ad olio”.

Dicevamo che l’olio ha una tradizione antica in queste zone, fin dai tempi dell’epoca romana o pre-romana. Merito di questa fioritura è senz’altro legata al clima ed ai suoi inverni miti.

Furono i monaci benedettini che, arrivando in queste terre già dal VII secolo, favorirono la ripresa dell’economia agricola con la bonifica dei terreni e l’incremento della coltivazione dei cereali, della vite e dell’olivo. Con la capillare presenza di numerose comunità monastiche, benedettine prima, camaldolesi poi, rinasce la vita sociale e l’economia agricola. Di olio in questi lunghi decenni si ha bisogno non tanto per usi alimentari quanto per quelli liturgici nell’amministrazione dei sacramenti, per l’illuminazione delle chiese, dei monasteri e delle case. Questo fa sì che ogni monastero, chiesa o piccola comunità rurale pratichi la coltivazione dell’olivo. Il paesaggio agricolo, secolo dopo secolo, acquistò quella fisionomia che oggi tutti conosciamo ed apprezziamo.

Gli olivi hanno anche un legame con la cultura sacrale: una sacralità che l’olivo stesso e l’olio hanno avuto da sempre e che le generazioni dei coltivatori hanno vissuto profondamente.

Le palme d’olivo benedette nella domenica che precedeva la Pasqua, poste in camera da letto ed in cucina, accompagnavano silenziose questi ritmi che si ripetevano senza tempo, pronte a sacrificarsi con il fuoco in caso di grandine, devastatrice di raccolti, di lavoro e di tanto sudore.

Non dimentichiamo che l’olio di oliva era usato, nelle nostre campagne, versato su un piatto con un po’ d’acqua, dalle fattucchiere e anche da quante tali non si ritenevano, per verificare la presenza di eventuali fatture e malocchi e per toglierli.

L’olio veniva utilizzato anche nella medicina popolare per le malattie più varie, soprattutto per quelle della pelle e dello stomaco.

Alcuni di questi olivi, divenuti secolari, sono delle sculture modellate dal tempo: solitario o vicino ad altri olivi, l’olivo antico si fa ammirare per la sua tenacia, per il suo aggrapparsi alla terra ed il contemporaneo divincolarsi da essa. Sculture che vivono non per il loro essere vivi oggetti d’arte, bensì per il loro abbarbicamento alla terra da cui traggono linfa ed umori.

Ora vediamo nel particolare ogni singolo castello e il suo rapporto con l’olivo. Cominciamo da:

 

CASTELBELLINO

Castelbellino si assoggetta a Jesi nel 1194 acquisendone anche le norme statuarie, che vedevano nell’olio e nell’olivo una ragguardevole collocazione, indizio sicuro della loro riconosciuta importanza nella vita economica e sociale dell’intera comunità del contado.

Innanzitutto le norme tutelavano, con chiarezza, la qualità dell’olio; le misur per vendere l’olio dovevano sempre essere approvate; una particolare attenzione era riservata agli oliveti, tanto che ogni anno dovevano essere piantate dei nuovi olivi; multe e contravvenzioni erano previste per chi tagliava alberi o rami di olivo.

Oltre che per Castelbellino queste norme riguardavano anche gli altri castelli sopraccitati della media vallesina.

La coltivazione dell’olio nel territorio di Castelbellino (l’allora Morro Panicale) è documentata dalla terza decade del Duecento. Anche se la presenza di olivi doveva essere ben più antica.

Con gli olivi erano presenti i frantoi o molini da olio. Di un molino da olio ad una macina ubicato dentro il perimetro del castello, si ha notizia agli inizi del Seicento. Era ubicato vicino la vecchia chiesa di San Marco, nell’attuale ingresso del Teatro comunale B. Gigli. Il frantoio venne smantellato verso il 1922, quando iniziarono i lavori di ristrutturazione del teatro, costruito nella seconda metà dell’Ottocento, per essere trasferito a poca distanza e rimanendo attivo fino agli inizi degli anni Trenta. Un altro frantoio era attivo tra l’Otto-Novecento.

Dai tornanti della Strada Provinciale n.11 che sale al centro storico è possibile ammirare numerosi olivi secolari che convivono con altri di più giovane età.

 

MONTE ROBERTO

La presenza di olivi nella valle di S. Andrea, nei confini tra Monte Roberto e Maiolati, è attestata nello stesso documento del 1219 che riguardava Castelbellino. Questa presenza è da collegare anche alla presenza di monaci camaldolesi che costruirono un’abbazia, quella di San Giorgio, nell’omonima attuale via (Borghetto di Pianello Vallesina) situata proprio all’imbocco della valle, dove scorre il torrente Fossato di San Giovanni verso Cupramontana. La produzione di olio tra il Sette – Ottocento non doveva essere molto abbondante. Nel 1809 un molino da olio era situato nei pressi del paese. Non lontano da questo, adiacente al borgo, nel 1914 viene registrato un molino. Questo molino rimase in attività fino al 1984-85, concludendo così un’attività molitoria secolare. Le olive macinate da questo frantoio erano di produzione locale e variavano nella quantità. Molte comunque erano le olive che i produttori portavano ad altri frantoi.

Non sono pochi, sparsi per la campagna di Monte Roberto, gli olivi secolari che testimoniano l’antica e chiara vocazione di queste terre alla coltivazione dell’olivo.

 

MAIOLATI SPONTINI

L’intero territorio di Maiolati Spontini con l’antico autonomo castello di Scisciano conserva sparsi per la campagna olivi secolari.

La coltivazione dell’olio è testimoniata dal Duecento ed è avvenuta in un terreno arativo ricco di varietà di altre specie arboree.

La presenza sul territorio dell’Abbazia di S. Maria alle Moie e di quella di S. Sisto, nel XII – XIII secolo, e l’opera di disboscamento e bonifica dei relativi monaci, ci parlano di economia agricola in cui l’olivo e l’olio avevano un ruolo certamente non marginale. Fino al Seicento prevale l’arativo olivato, dal Settecento al Novecento è invece l’arativo vitato e olivato a prevalere: viti e olivi convivono nei seminativi. Con il tramonto della mezzadria, nella seconda metà del Novecento, la necessità di specializzare le colture inducono ad espellere viti ed olivi dai seminativi per lasciare posto a produzioni intensive, siano pure soli vigneti ed oliveti a seconda dei terreni.

Frantoi ce ne sono stati in passato. Nel 1813 c’erano in paese due molini da olio in case private, probabilmente più antiche di questa data e ad uso famigliare.

A Scosciano, presso il fiume esino, limitrofo al ponte, nel 1906 fu costruito un molino a cereali e semi-oleosi, derivando l’acqua per la forza motrice dal fiume Esino; successivamente elettrificato, fu destinato solo alla macinatura delle olive. Agli inizi degli anni Cinquanta è passato ad altri proprietari. Il molino ha ora continuità nel frantoio ubicato a Macine – Stazione di Castelplanio.

A Moie nell’ultima decade del Novecento fu in attività, affacciandosi nella Piazza Minore, il frantoio Morbidelli che trasferì, in seguito, per qualche anno la propria attività in contrada Monteschiavo.

 

CUPRAMONTANA

La coltivazione dell’olio in territorio cuprense è storicamente documentata dal Trecento. Essa venne favorita in tutta la zona dalla presenza dei monaci e, andando ancora indietro di secoli, troviamo manufatti ceramici della romana Cupra montana che indicano sia la produzione, come il consumo di olio d’oliva. Molti terreni, nel Cinquecento, erano coltivati oltre che a vigna anche ad olivo; verso la metà dell’Ottocento venne impiantato nella contrada un molino ad olio a una macina. In contrada Spescia gran parte dei terreni fu adibita alla coltivazione dell’olivo e nel Seicento vi fu costruito un molino ad olio. Il numero dei molini o frantoi a Cupramontana lo troviamo nel corso dell’Ottocento: nel 1817 ce ne erano sei in attività. I frantoi più antichi erano ubicati: uno presso il fossato del castello (1521), un altro dentro il castello (1528), un altro nella casa che il Priore del Beato Angelo aveva all’interno del castello (metà del 1500), un quarto era ubicato nel Borgo Santa Caterina, attuale via Capponi (1532). Dal 1626 al 1631 i monaci dell’Eremo di S. Giuseppe delle Grotte possedettero un frantoio ubicato nell’attuale Piazza Cavour. Ora nel centro storico di Cupramontana non vi rimane più nessuna traccia di questi molini o frantoi.

Nella frazione Poggio Cupro due erano i frantoi nella seconda metà dell’Ottocento di cui uno ubicato a piano terra di un’abitazione a fianco della chiesa di San Salvatore. Due antiche macine sono ancora visibili, appoggiate ad un muro nei pressi del vecchio frantoio, una delle quali con l’abbreviazione del suo costruttore che la realizzò nel 1858. Il più antico frantoio di cui si ha notizia è del 1529.

In località Pontemagno dall’anno 2000 è stato realizzato un nuovo frantoio.

 

SAN PAOLO DI JESI

All’origine di San Paolo di Jesi c’è la presenza di un monastero benedettino, fondato prima del Mille, mentre per il suo costituirsi in castrum si deve attendere il XII – XIII secolo, facendo poi sempre parte del Contado di Jesi.

L’olivo fu sempre una delle fonti di ricchezza insieme al grano e alla vite. Nella seconda metà del Settecento (1776) c’erano .a San Paolo due molini da olio entro le mura del castello. Dagli anni Trenta è attivo un frantoio

Ogni pianta di olivo, per un’economia di sussistenza come fu quella delle nostre piccole comunità, era di fondamentale importanza.

 

STAFFOLO

Il castello è sorto tra il XII e il XIII secolo; tra i secoli VII e VIII era stato un luogo fortificato dei Longobardi. Il nome Staffolo deriva da staffal, termine longobardo dal significato originario di “palo”, usato anche nel significato di “palo di confine”. Solo per qualche tempo il castello di Staffolo fece parte del contado di Jesi e fu tra i Comuni della Marca “che la Santa Chiesa Romana tiene liberamente tra le sue mani”. Ebbe così suoi statuti, risalenti nella loro ultima redazione alla seconda metà del XVI secolo. Queste alcune disposizioni in merito all’olio: gli olivi come le altre piante fruttifere erano tutelati, i fornai non potevano riscaldare il forno con le nocchie delle olive, il proprietario del frantoio era tenuto a dare olio buono a chi gli aveva consegnato le olive.

Indubbiamente molini da olio sono stati presenti a Staffolo da secoli, comunque le prime notizie ufficiali che li riguardano appaiono nel catasto del 1809, ove sono annotati due frantoi di proprietà comunale concessi in enfiteusi a terzi e situati nel centro storico. Mancano dati certi sulla loro sorte successiva: di uno di essi si conserva tutt’ora la macina in pietra; con tutta probabilità erano azionati da asini o da muli.

Nessun dato è disponibile fino alla terza decade del Novecento quando Angelo Cercenelli, nel 1920, apre un frantoio in contrada San Pietro – Acqualta, che resterà in attività fino al 1993.

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